Quando “vivere con i vermi” era normale
Sono ormai passati circa 50-60 anni dallo svanire di questa attività redditizia per le famiglie povere di un tempo, eppure ancora oggi alcune memorie storiche del nostro territorio, ricordano e raccontano abbozzando un sorriso che le riporta indietro nel tempo. L’allevamento del baco da seta ha una tradizione millenaria che affonda le radici nelle incursioni saracene: un arte che si andò man mano perfezionando diventando fonte di sostentamento per le famiglie poverissime della zona. L’allevamento prevedeva varie fasi che scandivano la vita delle donne del tempo poiché proprio a loro era dedicata quest’attività. Basti pensare che le larve erano molto sensibili agli sbalzi termici e le donne, per farle sopravvivere, le mettevano in un pezzo di stoffa e le tenevano nel proprio seno: oggi questa cosa fa ribrezzo ma era un modo per permetterne appunto la vita alle stesse larve. Una volta formato il verme del baco, questo era depositato in un grande contenitore chiamato “Cannizzu” con della ginestra o rami secchi di erica dove il verme viveva e si nutriva di foglie di gelso. Nell’archivio storico di Cosenza sono conservati numerosi atti notarili a partire dalla seconda metà del 1500 che descrivono la compravendita, cessione, lascito o dote di interi gelseti che erano una fonte di guadagno. Ogni sera, al rientro dai lavori nei campi, sulle vecchie mulattiere si vedevano donne con delle ceste sulla testa che contenevano foglie tenere di gelso, le quali servivano per nutrire il verme del baco. La memoria di chi visse in quel periodo ricorda un odore molto forte nelle case dove avveniva questa pratica poiché, il baco da seta, veniva allevato in casa ed aveva posto sotto il letto o nel sottotetto del tempo realizzato con canne. Nel momento in cui il verme smetteva di mangiare si arrampicava su un ramo ed iniziava a formare il bozzolo nel quale si richiudeva per la metamorfosi. Questa fase era molto importante poiché da qui scattava il conto alla rovescia: dopo 10-12 giorni circa, il bozzolo veniva prelevato e bollito per far morire il verme e con l’acqua calda ed un apposito strumento, veniva filata la seta oppure venivano venduti direttamente i bozzoli. Una fase delicata poiché se la farfalla bucava il bozzolo questi era inutilizzabile per i corredi pregiati anche se, le donne, li utilizzavano per produrre calze e scampoli di stoffa per la propria famiglia. Una volta ottenuta la seta questa si raccoglieva in matasse e si lavorava al telaio se venivano commissionati tessuti, altrimenti veniva venduta alle fiere del tempo come quelle che si tenevano a Cosenza. Un’arte quindi prestigiosa, anche se il prezzo della seta spesso mutava poiché dipendeva dall’annata, dalle malattie che prendevano le piante di gelso e dai fattori ambientali. L’allevamento ebbe i suoi migliori anni nel 1700 dove si contavano tantissime filande, luogo nel quale avveniva il processo lavorativo, molte di proprietà dei nobili del tempo. Lo scomparire di questa attività può essere facilmente attribuito soprattutto al monopolio vessatorio che il governo aveva iniziato ad esercitare su essa e mentre nel Nord Italia quest’arte veniva sempre più valorizzata, al Sud, che veniva realizzata all’antico metodo tramandato di generazione in generazione, andò man mano scomparendo. L’allevamento del baco da seta ricoprì un ruolo importante nell’intero Savuto: in ogni paese ancora oggi è conservato qualche strumento che richiama l’arte tessile e la lavorazione delle fibre come il lino e la ginestra ma questa, è un’altra storia…